Berlusconi, gli uomini, la Storia e l’egemonia

People’s Memory Project
14 min readJun 15, 2023

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“Silvio Berlusconi è morto”. L’annuncio dato quasi in diretta su canale 5 aveva il tono che si dedica solo ai sovrani e, in qualche modo, da Mediaset — da cui è normale aspettarselo, essendo una azienda padronale — si è poi propagato a (quasi) tutti i media, alla classe dirigente in maniera trasversale, e giù fino a un’opinione pubblica e social la cui risposta ha mostrato una vittoria culturale e nella memoria collettiva di cui forse non eravamo troppo consapevoli. Pur avendo mantenuto un ruolo di influenza nella politica generale, è comunque innegabile infatti che l’era Berlusconi fosse in qualche modo finita da diversi anni, almeno dal 2011; se chiedessimo a un adolescente di oggi, di sinistra, cosa pensa del Cavaliere, probabilmente avrebbe la stessa reazione che quelli della nostra generazione (nata a cavallo tra gli anni Ottanta e i primi Novanta) hanno quando sentono parlare di Giulio Andreotti: giudizio negativo, ma nessun particolare coinvolgimento emotivo o politico. Mentre chi con il berlusconismo — e l’antiberlusconismo — ci è cresciuto, ha visto che quello che sembrava ormai un fantasma di sé stesso con la sua morte ha fatto emergere in maniera palese l’egemonia che è riuscito a costruire e radicare in questo Paese, premessa degli attuali assetti politici e sociali.

La scomparsa di Berlusconi ripropone l’antica questione se sia il singolo individuo (di potere) con le sue scelte a determinare la Storia oppure se, al contrario, il peso di quelle scelte sia reso possibile da determinate condizioni storiche, se quel personaggio incarni a suo modo una parte o la totalità dello “spirito del tempo”. Sicuramente le azioni, le teorie, gli errori e le intuizioni degli individui che per comodità definiremo “egemoni” (cioè dotati sì di forza e potere, ma anche di consenso in una parte consistente o nella maggioranza della popolazione) hanno un peso e una capacità di modificare o determinare culture, antropologie, comportamenti singoli e collettivi; ma ciò gli è anche permesso dalle condizioni del loro tempo, le convenzioni e le rappresentazioni, le crisi e gli elementi di stabilità, i rapporti di forza e le tendenze politiche, sociali ed economiche presenti o sotto traccia.

14 giugno 2023, i funerali di Stato per Silvio Berlusconi in piazza Duomo a Milano

Da questo punto di vista, cosa e chi è stato Berlusconi? Non è nostra intenzione riproporre qui quello schema che, giustamente di fronte al conformismo bipartisan, istituzionale e mediatico (intendendo qui anche i social network, al di là delle bolle anti-berlusconiane), in molti tra intellettuali, militanti, giornalisti, community e settori dell’opinione pubblica, stanno portando avanti per scuotere dall’amnesia e dall’allucinazione collettiva la maggioranza rumorosa, ricordando dati di fatto inequivocabili e che dovrebbero essere quanto meno divisivi — processi per corruzione e rapporti con la criminalità organizzata, conflitti di interesse giganteschi, maschilismo e sessismo assunto a linguaggio dominante, assieme all’individualismo più becero ecc. ecc. No, la nostra intenzione è proporre degli appunti (incompleti) di ragionamento storico, che in ultima istanza rivela il ruolo avuto da determinati individui egemoni nel corso del loro tempo e della loro vita, al di là delle intenzioni e della volontà stessa e soprattutto oltre l’interpretazione data nella stretta attualità a quanto hanno realizzato.[1]

Berlusconi è stato il risultato di tanti fattori. Esponente di una borghesia rapace, nordica e nordista, cresciuta nell’accumulazione selvaggia post-boom economico e figlia del grande compromesso con il capitale pubblico e tra finanza cattolica e laica; prodotto di quella sottocultura di potere ben rappresentata dalla Loggia P2 che — oltre le mitologie e la narrazione dei “misteri d’Italia” che pretende di fare della nostra storia nazionale un grande romanzo giallo a sfondo criminal-mafioso— fu camera di compensazione di interessi plurimi e contrastanti di una classe dirigente sfaccettata e litigiosa, espressione della reazione dirigenziale agli anni della grande contestazione sociale e del conflitto, che avevano causato la cosiddetta crisi del comando.[2] Questo è infatti un elemento centrale: Berlusconi crebbe in un contesto relazionale e politico che interpretava la crisi degli anni Settanta come sovraccarico del sistema decisionale, che rendeva lo Stato ostaggio delle linee di pressione di diversi gruppi sociali — in primis, il movimento operaio e la conflittualità dei ceti subalterni –, paralizzando di fatto l’agibilità di governo.[3] La P2, che in realtà già nel 1981 con l’inizio dell’inchiesta Colombo e la scoperta di Castiglion Fibocchi[4] era definitivamente entrata in crisi, e il piduismo vanno letti sì come una organizzazione, ma soprattutto come un ambiente che ha formato molti esponenti del mondo imprenditoriale, politico, militare, mediatico italiano con effetti a lungo termine.

Tessera 1816 della P2 di Silvio Berlusconi

La controrivoluzione neoliberale globale facilitò l’affermazione di tendenze di restaurazione anche da noi, dopo gli anni dell’assalto alla catena di comando: tratto comune della cultura politica che acquistò sempre più forza dagli anni Ottanta, dentro e fuori il piduismo, fu proprio la volontà di disarticolare in primis il blocco sociale lavorista e operare riforme istituzionali in grado di ripristinare la capacità decisionale di una classe dirigente da ricompattare. Il famoso Piano di Rinascita Democratica altro non esprimeva che questo e molti suoi punti li ritroveremo nei decenni a venire nei programmi di riforma del centro-destra e del centro-sinistra. Dopo la fase stragista e golpista, dopo il decennio dell’onnipotenza che si tradusse in una corruzione sistemica e in una gestione della cosa pubblica spesso platealmente extralegale, sarà proprio il terremoto di inizio anni Novanta rappresentato da Mani Pulite (che non a caso Berlusconi, nel ’94, dichiarava di avere appoggiato tramite le sue tv e giornali)[5] a riassorbirne e normalizzarne le istanze, colpendo non solo i movimenti e il conflitto, ma anche quegli stessi partiti che avevano mantenuto un primato sull’esecutivo per tutto il primo quarantennio repubblicano, fino a trasformarle in patrimonio comune della cultura politica della cosiddetta Seconda Repubblica. E’ molto importante ricordare che le premesse dell’elaborazione da parte di Licio Gelli di una riforma istituzionale presidenzialista e di un contesto di imposizione, fino alla repressione, di limiti al movimento sindacale, di pari passo invece alla eliminazione di (presunti) “lacci e lacciuoli” al mondo imprenditoriale, era figlia dei precedenti anni di strategia della tensione e dottrina di guerra rivoluzionaria in seno alla NATO — egemone in buona parte del centro e della destra italiane e occidentali.

Ma il piduismo — sempre inteso come cultura politica e non solo come massoneria e malaffare — di Berlusconi si incontrava con la rivoluzione antropologica consumista precedente (quella denunciata e raccontata da Pier Paolo Pasolini per capirci), integrata dal nuovo vento culturale neoliberale e dall’immaginario trash, machista e ultra-individualista che proprio il “Signor TV” contribuì ad alimentare negli anni Ottanta (anche qui cogliendo tendenze già in atto), grazie alla reinvenzione totale dello spettacolo come strumento politico, in tutte le sue forme. Da questo punto di vista, ciò che ad esempio secondo Mattia Salvia in Interregno Donald Trump ha rappresentato per gli Stati Uniti e la politica estera USA[6] — con necessario impatto sulla diplomazia internazionale — ovvero colui che ha fatto saltare le regole e l’etichetta, il bon ton tipico delle classi alte e la formalità, l’esponente dell’élite che produce e radicalizza la rivolta populista contro l’establishment dello status quo — Berlusconi lo ha avviato, con le dovute differenze, a inizio anni Novanta in Italia ed Europa, preparando il terreno tramite una trasformazione da lui colta e facilitata nei caratteri del senso comune nazionalpopolare.

Una conseguenza fu rendere rumorosa e trasformare davvero in maggioranza quella che il fronte conservatore e reazionario negli anni Settanta chiamava maggioranza silenziosa[7] — che maggioranza non era all’epoca. Il Cavaliere riuscì, anche grazie alla retorica del self made man e riprendendo antichi motivi cari al piccolo azionariato e ai commercianti del Nord — dove l’antistatalismo si sovrapponeva spesso all’antimeridionalismo e alle proteste contro le tasse imposte da Roma –, a legare questi gruppi sociali agli interessi dei grandi proprietari di cui era parte; colse i sentimenti presenti nel ceto impiegatizio che dalla “Marcia dei Quarantamila” aveva iniziato a rivendicare i propri “diritti lesi” contro le politiche redistributive imposte dalla contestazione operaia[8]. Al tempo stesso, infine, fece breccia anche in quella classe operaia in via di disgregazione, facilmente preda degli “schermi del riflusso”[9] e della rivoluzione mediatica degli anni Ottanta: come ci insegnavano già Elio Petri e Ugo Pirro con La classe operaia va in paradiso, il proletariato sfruttato delle fabbriche, anche nella sua di operaio-massa, non è mai stato un soggetto spontaneamente e automaticamente rivoluzionario, non più di quanto potesse declinare verso la nascente sottocultura trash e l’allucinazione da consumo — culturale e materiale. Berlusconi riuscì dunque compattare un blocco sociale e culturale, interclassista e pur nelle sue diversità interne accomunato nelle sue componenti medie e piccolo-borghesi, proprio da un sentimento di rivalsa e rivincita dopo decenni ricostruiti nella memoria collettiva come di assedio e discriminazione da parte dei comunisti e dei sindacati.

Tangentopoli e la dissoluzione dei partiti dell’arco costituzionale, la resa spontanea del Partito comunista italiano e la sua implicita accettazione del nuovo ordinamento neoliberale, il referendum del 1993 e la nuova legge maggioritaria: tutti questi sono stati elementi che hanno permesso all’operazione Forza Italia di avere successo, disarticolando le forme della rappresentanza politica e sociale, parallelamente a una progressiva delegittimazione — e derisione — del Parlamento, a favore invece di un progetto politico dove risoluzione della crisi del comando, decisionismo, antipolitica e populismo culturale si sono incontrati con un modello economico neoliberale e una paradossale liberazione del potere — e delle ricchezze — verso l’alto. Delegittimate e scomparse le grandi organizzazioni, rimanevano solo i gruppi di interesse, le cordate e le relazioni facilitate dalle porte sempre più girevole tra mondo degli affari e politica, e un esecutivo slegato da vincoli; il cosiddetto sdoganamento dei neofascisti dell’MSI/AN e la legittimazione del leghismo (di cui il berlusconismo condivideva, come si sarà intuito, la base sociale di borghesia minuta e piccola imprenditoria settentrionale, animata dall’ostilità verso “Roma ladrona”) non erano che una conseguenza, causando più che un “addomesticamento” dell’estrema destra[10] una sua progressiva integrazione nel panorama politico e di molte parole d’ordine, luoghi comuni, categorie intellettuali di quel mondo nel senso comune e nell’immaginario.

Infine, il ribaltamento dell’architettura costituzionale materiale, dietro gli slogan anti-statalisti ed efficientisti, hanno portato anche a una affermazione della assoluta priorità dell’interesse proprietario su quello collettivo e sul principio di solidarietà sociale che, mai dominante nell’età repubblicana, rimase comunque un fattore con cui fare i conti, capace di scatenare conflitto di ampia portata, nei primi 40 anni della Repubblica. E’ proprio per questo che il mondo imprenditoriale, commerciale, finanziario lo elogia, piange e applaude: Berlusconi era uno di loro, colui che gli ha dato uno strapotere morale e politico che in precedenza non era stato mai così assoluto. L’etichetta e la forma, le gaffe e le barzellette, le corna nelle foto di gruppo ai meeting internazionali e la cosiddetta “credibilità del Paese” messa in crisi dai suoi comportamenti, non contano assolutamente nulla — potevano contare forse all’inizio, ma non dopo, quando appunto una nuova generazione di leader politici in più Stati europei lo hanno preso a esempio, in quella che vivevano e vivono come una dissacrazione di Istituzioni considerate anti-popolari e da rifondare o abbattere. Chi si stupisce che il Cavaliere venga considerato un “grande imprenditore” non ha forse chiaro la natura della classe imprenditoriale e proprietaria italiana — e non solo.

E gli altri, gli anti-berlusconiani degli anni Novanta e Duemila, perché lo omaggiano e ora accettano tacitamente e vigliaccamente di partecipare al lutto nazionale?[11] La destra non può fare altrimenti: essa è politicamente un suo prodotto, quella conglomerata di potere regge tuttora e gli deve molto, al di là dei dissapori e delle competizioni personali che spesso hanno messo in crisi i governi Berlusconi nonostante le ampie vittorie elettorali. Ma ciò che può apparire strano è il silenzio dell’opposizione, vecchia e nuova: esaurita la carica antagonista presente dal 1994 al 2011, in un periodo di transizione rimasta di fatto incompiuta dal vecchio ordinamento post-resistenziale al nuovo ancora indefinito , interrotta da eventi più grandi, quelli della crisi globale che hanno avviato una più vasta e generale transizione mondiale e occidentale (manifestatasi nel 2011 in Italia, proprio nell’ultimo anno di reale centralità politica di Berlusconi), a “sinistra” vi è stato un riconoscimento di fatto della comune matrice di modernizzazione e governance impostata per primo da Berlusconi e oggi divenuta patrimonio comune della classe politica in molte sue parti — priorità dell’esecutivo sul legislativo e il giudiziario; disarticolazione dei partiti in cordate e notabilati locali; ruolo strategico della vasta zona grigia dell’imprenditoria piccola e media nel modello di sviluppo economico dei territori; sospensione della democrazia procedurale in nome della prorità dell’economia; subalternità dei redditi bassi, del lavoro dipendente e para-subordinato agli interessi proprietari; reclutamento di “non politici” e tecnici nei settori alti dell’economia, spacciati per “rappresentanti della società civile”; gestione emergenziale della questione migranti e nazionalismo straccione come fondamento dell’immaginario e della memoria storica comune.

Insomma, elementi di innovazione innestati su canali di continuità e riemersione di antiche forme di organizzazione del potere — che non sembra azzardato definire risorgimentali — ormai comuni all’intera o quasi classe dirigente attuale.[12] La normalizzazione della rivolta populista degli anni Novanta non ha significato la democratizzazione di elementi e tradizioni politiche anti-democratiche (piduismo, post-fascismo, leghismo, poujadismo di parte dei ceti medi), quanto una loro compartecipazione agli equilibri politici e predominio di molti loro caratteri nell’egemonia attuale.

Eppure, se il berlusconismo ha funzionato è perché la società e lo Stato italiano erano già pronti ad accettarlo, non c’erano elementi solidi in grado di respingerlo già prima della famosa discesa in campo del 1994. Di più: Silvio Berlusconi non è stato l’oscuro artefice di una manipolazione di massa, ma espressione di una cultura specifica e individuo capace di indiscutibili intuizioni, spregiudicato e cinico populista, capace di cavalcare la retorica del riflusso — dalla politica, dalla dimensione collettiva, dal precedente contratto sociale — fino alle sue estreme conseguenze. A questo proposito, ha scritto giustamente Aldo Giannuli che «Forza Italia è nata ben prima del gennaio 1994: in quel momento era già presente e aveva solo bisogno di manifestarsi».[13] Proprio come il fascismo e in generale le gramsciane rivoluzioni passive o rivoluzioni dall’alto capaci nella Storia di radicarsi e durare, costruire qualcosa di nuovo e diverso dalla fase precedente, indipendentemente dalle fortune politiche dei propri fondatori — e questo “indipendentemente” riguarda soprattutto quei contesti dove la fine dell’individuo egemone non avviene a seguito di avvenimenti violenti come sommosse, guerre e rivoluzioni.

Non c’è bisogno di chiedersi cosa succederà domani; certo, questa domanda può avere senso riguardo il caso specifico di Forza Italia, gli equilibri interni al governo Meloni o i destini delle aziende di famiglia. Ma storicamente parlando siamo già da anni nel post-berlusconismo (almeno dal 2011), mentre dal punto di vista culturale e antropologico i caratteri degli italiani imposti dalla sua “rivoluzione” sono stabili e lo rimarranno per molti anni, evolvendo e mischiandosi con la più vasta trasformazione tecnologica, cognitiva, politica e culturale in corso nell’epoca del capitalismo della sorveglianza e del caos sistemico globale. Ciò che in questi giorni si sta manifestando è proprio questo: l’egemonia completa del berlusconismo e la resa senza dignità dei suoi avversari a destra e “sinistra”, antichi e attuali, nel ceto politico e istituzionale. Quello che si manifesta e che forse avevamo dimenticato è il disastro causato da una vittoria (dei nostri avversari) e ormai consumatasi tanti anni fa e che ci vorrà molto tempo per ribaltare — e che forse, ancora una volta, «solo la rivolta potrà abbattere».[14]

Elio Catania

Roma, 15 ottobre 2011. Corteo al culmine di un anno di dure proteste sociali iniziate il 14 dicembre 2010 in piazza del Popolo
15 ottobre 2011, Roma: imponente manifestazione nazionale in una giornata di mobilitazione europea contro l’austerity e che in Italia fu il culmine di quasi un anno di protesta sociale contro l’ultimo governo Berlusconi

NOTE:

[1] Nel caso di Berlusconi, come ha ricordato Elia Rosati, «sbaglieremmo però a pensare che il mondo berlusconiano non abbia subito sconfitte, perso partite o non sia stato mai messo politicamente in difficoltà: come tutte le esperienze così lunghe ed estreme sarebbe sciocco e fazioso dirlo; e tanti sono stati i processi bloccati o rallentati, quasi sempre dal basso». Si veda: https://www.dinamopress.it/news/un-cavaliere-nella-guerra-dei-trentanni/

[2] M. Crozier, S. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli, Milano 1975. Prefazione di Gianni Agnelli per l’edizione italiana.

[3] G. Are, S. Pegna, Gli anni della discordia, Longanesi, Milano 1982

[4] Il 17 marzo 1981 i giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento di Michele Sindona, ordinarono la perquisizione della residenza di Gelli a Castiglion Fibocchi, Villa Wanda, e della sua azienda, la Giole, che aveva sede sempre in Valdarno. Il blitz portò alla scoperta di una lista segreta di alti ufficiali delle forze armate e di funzionari pubblici aderenti ad una loggia massonica, “Propaganda 2”, P2. Una lista molto lunga comprendente anche i vertici degli apparati di sicurezza SISMI e SISDE, politici, industriali e finanzieri, giornalisti e personaggi del mondo dello spettacolo.

[5] Prima che iniziasse, di lì a breve, la lunga stagione dello scontro politica-magistratura incarnato proprio da Silvio Berlusconi, il protagonismo dei giudici che portò a Mani Pulite fu il risultato della stagione dell’emergenza inaugurata nella seconda metà degli anni Settanta e soprattutto dopo il sequestro Moro: negli anni Ottanta, partiti e istituzioni politiche delegarono la risoluzione non solo della lotta armata, ma in generale del conflitto radicale al potere giudiziario e ai corpi speciali delle forze dell’ordine. Al di là del mito fondativo rappresentato da Tangentopoli per la sinistra anti-berlusconiana, molte delle distorsioni del diritto e delle anomalie procedurali inaugurate con la gestione emergenziale del terrorismo rosso saranno portate avanti anche negli anni di Mani Pulite. Cfr. S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1995

[6] M. Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, pp. 67-seguenti, NERO, Roma 2022

[7] Nel febbraio 1971 le sezioni giovanili di Movimento sociale, Partito monarchico, Partito liberale e Partito socialdemocratico — che avevano già trovato convergenza in numerose occasioni — diedero vita alla cosiddetta Maggioranza silenziosa: guidata da Adamo Degli Occhi, il democristiano Massimo De Carolis, Luciano Buonocore (segretario regionale lombardo del Fronte della Gioventù missino), essa ebbe la sua base sociale nei piccoli azionisti e commercianti lombardi e beneficiava della struttura organizzativa messa a disposizione dall’estrema destra. Il debutto pubblico fu la manifestazione del 13 marzo ’71, caratterizzata dall’assenza di bandiere di partito e dalla presenza di soli tricolori. La Maggioranza silenziosa non sarebbe durata molto, entrando in crisi a causa della netta predominanza organizzativa e militante del MSI (di cui avrebbe fatto le fortune elettorali a Milano), che progressivamente allontanò le altre componenti dalla partecipazione. Tuttavia, essa fu espressione di un malessere profondo e di posizioni anti-democratiche presenti all’interno del ceto medio e della piccola borghesia proprietaria, che sarebbero durate anche dopo la fine di quella breve esperienza.

[8] In particolare qui ci riferiamo all’accordo sul punto unico di contingenza della scala mobile, del gennaio 1975, tramite cui il movimento operaio e i redditi da lavoro più bassi riuscirono a ottenere una delle più importanti vittorie relativamente alla redistribuzione della ricchezza nazionale. L’accordo sarebbe durato poco, ben presto messo in crisi dai nuovi equilibri politici e dalla reazione che indirettamente scatenò nel ceto medio impiegatizio che fu il più penalizzato, con un abbassamento sensibile del proprio livello salariale.

[9] G. Manfredi, Ma chi ha detto che non c’è, pp.363–67, Agenzia X, Milano 2017

[10] M. Tarchi, Cosa rimane degli orfani che il Cavaliere addomesticò, su “Domani” 13 giugno 2023

[11] Si veda la serie di dichiarazioni di Massimo D’Alema, Romano Prodi, Pierluigi Bersani, Mario Monti, Matteo Renzi (lo possiamo considerare un avversario?), fino all’attuale segreteria PD Elly Schlein.

[12] G. Orsina nel suo Il berlusconismo (Marsilio, Venezia 2013) descrive il fenomeno politico inaugurato da Silvio Berlusconi come «una emulsione di populismo e liberismo».

[13] A. Giannuli, Da Gelli a Renzi, pp. 119–20, Ponte alle Grazie, Milano 2016

[14] A. Gramsci, Odio gli indifferenti, su La città futura 11 febbraio 1917

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