Dhakira Project #7 — ذاكرة. Andiamo, torniamo.

People’s Memory Project
5 min readJan 19, 2019

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Sorridere, ballare, piantare un albero d’ulivo, portare i figli a scuola, fare l’amore, proteggere le nostre pietre. Questa è resistenza. Dipingere, costruire una casa. Questa è resistenza. Aspettare in piedi per quattro ore per attraverso un check point e poi passare. Questa è resistenza. Noi siamo ancora qui. Nassar Ibrahim

Confine di Erez. “Il nostro messaggio all’occupazione israeliana”, dedicato a due giovani giornalisti di Gaza uccisi dai cecchini israeliani durante le Marce del Ritorno

Scriviamo queste righe dopo gli ultimi giorni dentro Gaza e il ritorno in Cisgiordania — e da qui in Italia.

L’uscita dalla Striscia è appena anticipato dall’episodio dei 3 carabinieri (anche se secondo le ultime notizie da Israele e Palestina sarebbero stati 4) che, entrati in modo legale e autorizzato per svolgere un normale sopralluogo di sicurezza in vista della visita del console italiano a Gaza, si sono rifugiati nella sede UNRWA dopo che non si erano fermati a un posto di blocco, scappando in seguito alla breve sparatoria che ne è seguita. I primi sospetti di essere agenti israeliani o di appoggio a questi sono rientrati in 24 ore, quando poi i militari sono stati rilasciati e fatti uscire. La strana vicenda, al di là di ipotesi e complottismi, sembra più semplicemente e drammaticamente indicare piuttosto l’errore commesso per ignoranza del contesto in cui si trovavano ad agire — elemento comune a molta della diplomazia e delle forze di sicurezza occidentali presenti in Medio Oriente.

Cisgiordania, deserto di Betlemme

Dopo aver passato i controlli di sicurezza e le perquisizioni in uscita da Erez, torniamo verso Betlemme e i campi di Deisheh e Aida, riattraversando Israele. “Sapete come si dice da noi? ‘Della gente del mare e del deserto non ti puoi fidare, perché sono come la sabbia, soffiano via col vento’. Significa che non sono come noi, popoli della terra e della montagna, solidi”. Questa frase la pronuncia un amico e compagno di Betlemme, mentre gli raccontiamo di Gaza. In essa è racchiuso il segno che uno degli obiettivi dello Stato israeliano è raggiunto: la separazione e la distruzione della comunità nazionale palestinese. Allo stesso modo, un altro ragazzo, ma a Gaza, a proposito della Cisgiordania ci aveva detto nei primi giorni: “Sarò duro, ma onesto: per me Israele può radere al suolo Ramallah, non mi interessa. A loro non importa di noi e a noi non importa di loro”.

Il sentimento non è dominante e generalizzato. A testimoniarlo ci sono le manifestazioni di solidarietà che il venerdì si svolgono nelle città dei Territori occupati con la Marcia del Ritorno di Gaza. Tuttavia è reale la distanza che separa i palestinesi dei diversi Territori occupati — per non parlare della diaspora.

Cisgiordania, monastero San Saba nel deserto di Betlemme

Al termine di questa prima tappa del progetto Dhakira vogliamo provare ad abbozzare alcuni spunti rispetto al lavoro svolto — e vissuto:

  • la condizione della Palestina e di Gaza in particolare è di guerra e controinsorgenza permanente; non si tratta di una condizione passiva, che una popolazione subisce in seguito al conflitto tra il proprio Stato e un paese esterno, ma si tratta di una militarizzazione costruita nei decenni per colpire una resistenza politica attiva;
  • in una resistenza popolare ridotta allo stremo, portata avanti da una società parcellizzata e frammentata, dove anche le proprie autorità politiche si volgono sempre più verso istanze conservatrici e autoritarie, non c’è alcuna poesia o romanticismo: c’è invece sopravvivenza, opportunismo, durezza; ma anche il fiore della solidarietà che permette di dire che quella resistenza non è finita, che ha anzi la possibilità di rinascere più forte, se in grado di liberarsi dei suoi stessi elementi conservatori e dai suoi tabù;
  • la cosa più difficile e rara da trovare a Gaza sono i libri e persone che, nelle molte guerre attraversate, hanno conservato una biblioteca personale; oltre a ciò, dei luoghi pubblici e collettivi di conservazione e utilizzo della cultura. Lo spirito con cui soprattutto i più giovani partecipano ogni venerdì alla Marcia del Ritorno riflette l’unica prospettiva che si danno anche i ragazzi palestinesi della Cisgiordania: affrontare direttamente il nemico e se necessario cadere sotto le sue pallottole. Si ha il senso profondo e quasi naturale dell’ingiustizia e dell’oppressione della propria condizione, non si ha la percezione più radicale e profonda dell’origine e del suo significato. E che no, non è detto che la vita debba continuare a essere come è stata finora per generazioni;
  • se la memoria storica ha un suo contenuto sovversivo rispetto al presente, qui vale più che mai. Ce ne siamo accorti lavorando con le ragazze e i ragazzi della al-Quds University, così come parlando e stando insieme ai gazawi più giovani che, non appena finiscono di dirci “No future here”, ci parlano di un passato che si perde nel tempo lungo e astorico della tradizione: il contatto diretto con la fonte orale invece li aiuta a comprendere che c’è stato un tempo diverso (non migliore, ma differente) e che la loro stessa esperienza può un giorno diventare parte di questa storia sbagliata ma che disperatamente e ostinatamente si vuole invertire.
Rampa di skate realizzata dai ragazzi del Gaza freestyle

In Palestina ci sono due modi di dire “resistenza”. Il più noto è al-muqawama, che indica direttamente la lotta armata e la resistenza fisica all’occupazione militare; l’altro, meno noto, è sumud, che potremmo tradurre anche con “resilienza”, “perseveranza”, “ostinazione”, in senso positivo. Se la prima è parte necessaria — ma non sufficiente — alla trasformazione, la seconda è invece un concetto prodotto dall’esperienza storica palestinese, descritto nella citazione con cui abbiamo aperto questo racconto, ed è ciò che dà uno slancio verso il futuro alla sopravvivenza. Alle diverse azioni e atteggiamenti del sumud pensiamo di poterne aggiungere un altro: il mantenimento, la raccolta, conservazione e trasmissione della storia. Con il Dhakira Project abbiamo provato ad aggiungere un tassello.

Ringraziamo Meri e il centro culturale italiano “Vik-Vittorio Arrigoni” per l’ospitalità in queste settimane.

Jabalia Camp

[Con gli studenti dei workshop sulla storia orale abbiamo aperto, in chiusura del corso, un profilo instagram co-gestito da noi e loro: https://www.instagram.com/dhakiraproject.gaza/?hl=it. Sopra ci potete trovare alcuni dei lavori fatti insieme in queste due settimane e troverete aggiornamenti direttamente da loro, per portare avanti il progetto anche a distanza. Uno strumento in più per continuare a parlarci].

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