Russia, Ucraina e la Storia che ritorna

People’s Memory Project
22 min readMar 15, 2022

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Il ritorno della guerra in Europa

Alle 4 di notte del 24 febbraio 2022 la guerra è ritornata sul suolo europeo, nella sua forma ritenuta più indicibile e impossibile secondo i tabù e i canoni europei contemporanei: una guerra di aggressione, con conseguente invasione militare di un Paese da parte di un altro, coinvolgimento della popolazione civile e rischio di una escalation di scala non facilmente prevedibile.

Noi non dimentichiamo certo che non si tratta ovviamente della prima volta in assoluto del ritorno della guerra in Europa: ci riferiamo, in particolare, ai conflitti nei Balcani degli anni Novanta, che comodamente sono passati nella memoria continentale come guerre di tipo “etnico” (con una accezione di superiorità morale sottintesa), dovute a cause strettamente interne a metà tra i caratteri dei popoli della regione e il fallimento del socialismo jugoslavo; trattate e gestite nelle loro conseguenze come tali, hanno aperto la strada al modello di gestione della “risoluzione dei conflitti” che dalla Bosnia sarebbe poi arrivato alle guerre mediorientali, dove i trattati imposti secondo canoni di comunitarizzazione e paradigmi di omogeneità etnico-religiosa avrebbero solo posto le premesse i capitoli successivi e ben più violenti di quelle guerre che l’Occidente pensava di risolvere, assecondando spesso le istanze delle fazioni più radicali e nazionaliste.[1]

Ma pensiamo anche a quel tipo di guerra particolare che in Europa si svolse negli anni della dottrina NATO della Guerra rivoluzionaria, quando un conflitto coperto e asimmetrico portò a stagioni terroristiche a fini di destabilizzazione interna, come nel caso della strategia della tensione in Italia, e veri e propri colpi di Stato, come nella Grecia dei Colonnelli.

La crisi ucraina e le narrazioni storiche nell’ex URSS

Tuttavia è indubbio che l’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022 rappresenti qualcosa di qualitativamente nuovo e diverso, quanto meno inedito da quasi 80 anni a questa parte nel Vecchio Continente. Una scelta, quella del presidente russo Vladimir Putin, che ha infranto tutte le previsioni degli analisti europei che escludevano dagli scenari possibili la guerra convenzionale; ma certamente non una decisione improvvisa o improvvisata. Al riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk, nella regione orientale ucraina del Donbass, ci si arriva dopo quasi un decennio di scontro militare a bassa intensità e diplomatico tra Mosca e Kiev, seguito a sua volta alla rivoluzione politica del 2014 in Ucraina che portò al cambio non solo del governo ma in generale dell’orientamento politico e internazionale del Paese; gli sconvolgimenti di quell’anno erano stati anticipati dalla “rivoluzione arancione”, fallita, di 10 anni prima. Ed è proprio tra il 2004 e il 2008 (periodo che va dalla prima crisi ucraina all’intervento nel Caucaso, contemporaneo allo scoppio della crisi economica internazionale) che Putin inizia a modificare il discorso e l’azione in merito alla proiezione internazionale della Russia contemporaneamente a un nuovo discorso pubblico interno, dove spazio sempre più ampio viene riservato alla politica della memoria e alla ridefinizione della storia russa ed ex sovietica dell’ultimo secolo. Questo processo conosce poi una intensificazione e al tempo stesso un cambio di passo in seguito ai movimenti di protesta esplosi in Russia tra dicembre 2011 e febbraio 2012, contro la corruzione e gli abusi di potere delle autorità. Una differente narrazione storica che inevitabilmente si confronta con i fenomeni simili avviati nelle ex repubbliche sovietiche dell’Europa orientale: in alcuni casi prodotti nell’immediatezza della dissoluzione dell’URSS (Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania); in altri più di recente (Polonia, Ungheria, Ucraina appunto), dove la ritrovata indipendenza formale e informale spesso si è composta di un diffuso sentimento anticomunista, motivi patriottici a volte filo-occidentali e altre più radicalmente nazionalisti — declinati in entrambi i casi in chiave anti-russa. E’ interessante, da questo punto di vista, osservare anche i cambiamenti interni all’estrema destra ucraina.[2]

Proprio in questi Paesi si sarebbero svolti tentativi di tribunalizzare la storia recente per fare i conti con il passato sovietico, al fine di riaffermare non solo la propria indipendenza politica ma anche una dignità storica in quanto nazioni secolarmente oppresse dal vicino russo, di cui il regime comunista avrebbe rappresentato solo l’ultima e più brutale edizione. La rivoluzione politica del 2014 in Ucraina ha rappresentato l’ultimo capitolo di questo processo, dove il passato sovietico è stato oggetto di una damnatio memoriae politica e giuridica, appoggiata dai governi del dopo-Yanukovich, con leggi che hanno bandito monumenti, raffigurazioni, espressioni della memoria materiale dell’epoca comunista, arrivando poi a equiparare il comunismo con il nazismo[3] (al pari di quanto fatto ad esempio nella Ungheria di Viktor Orban).

Cartina sul “Holodomor” (nome attribuito alla carestia che si abbatté sul territorio dell’Ucraina dal 1932 al 1933 causando diversi milioni di morti) e monumento commemorativo anti-russo in Ucraina, inaugurato dopo il 2014.

Dal punto di vista russo, partendo proprio dal discorso di Putin del 22 febbraio, l’area dell’Europa orientale deve porsi come necessariamente neutrale ai fini di sicurezza nazionale, quando non parte integrante dal punto di vista storico della “Grande Russia”. Come accenneremo più avanti, infatti, per il presidente russo il diritto di intervento militare in un Paese come l’Ucraina deriva dalla secolare appartenenza della regione all’antico impero zarista, secondo una ricostruzione della storia secolare dell’area in quello che si presenta come un continuum ininterrotto di progressiva espansione dell’egemonia russa, nelle direttrici della comune appartenenza d’origine. Prima infatti della lunga età dei Romanov, il “pilastro spirituale” della nazione è costituito dall’ortodossia, affermatasi con quel regno di Rus’ del IX-XIII secolo, con capitale proprio Kiev dove si battezzò nel 998 Vladimir I, evento che dalla vulgata più nazionalista viene considerato il punto di inizio nella costruzione della nazione; successivamente, è proprio Caterina II detta “la Grande”, protagonista della annessione diretta del territorio ucraino all’impero e quindi protagonista nella mitologia nazionale della riunificazione dell’antica Rus’ (composta dalla Grande Russia moscovita, dalla Russia bianca bielorussa e dalla Piccola Russa ucraina), a essere citata come l’artefice di quel destino comune russo-ucraino, che solo con Lenin e i bolscevichi sarebbe stato stravolto a seguito del disastro rivoluzionario.

Una mappa storica delle acquisizioni territoriali dell’attuale Stato ucraino mostrata alla televisione russa prima della guerra. L’Ucraina in senso stretto viene circoscritta alla zona centrale in giallo, le altre regioni sono considerate donazioni artificiali di Mosca

Ma in realtà, questa presunta culla millenaria rappresentata dal regno di Rus’ era già all’epoca un crocevia di popoli e influenze diverse, un dominio vasto ma frammentato e altamente instabile, afflitto da lotte di successione e conflitti interni.[4] Nonostante ciò, Rus’ rappresenta tuttora un mito fondativo anche per altri Paesi dell’Europa orientale, come Polonia, Lituania e Ucraina appunto.[5] Questo carattere: la Russia ha la necessità di tenere insieme in una comune matrice storica le diverse comunità statuali e nazionali della “grande Russia” perché le origini di molti regnanti che ne hanno incarnato il “destino manifesto” sono, appunto, ucraine, baltiche, georgiane — in definitiva, non puramente russe.

Impero e modernizzazione nella Russia di Putin

Quello che ci interessa però analizzare in particolare è l’intreccio tra politica di potenza della Russia Unita di Putin (nome del Partito presidenziale, ma anche sintesi dell’ideologia che lo anima) e discorso pubblico sulla storia nell’attuale fase di guerra guerreggiata tra Mosca e Kiev. Non è un caso che il presidente russo abbia dato di fatto il via alle operazioni militari con il discorso del 22 febbraio sul riconoscimento ufficiale del Donbass in cui le ragioni immediate, di “difesa” dalla minaccia espansionista rappresentata dalla possibile adesione ucraina alla NATO e tutela delle popolazioni russofone, si sono alternate alla versione sull’origine dell’Ucraina contemporanea secondo Putin, per cancellarne ogni legittimità storica e politica. Come già in altri discorsi negli ultimi anni, a tornare sono alcuni “fantasmi” sempre presenti nella memoria collettiva russa, della società civile e delle sue classi dirigenti: gli zar, i bolscevichi e Lenin, Stalin, l’Unione Sovietica. Ovviamente, analizzando nel dettaglio la storia della storiografia russa dagli anni Novanta a oggi, emerge come questi elementi si inseriscano in una cornice molto più ampia, dove avvenimenti del Novecento sono affiancati a periodi storici più lontani, dall’Età dei Torbidi di inizio XVII secolo (la cui risoluzione corrisponde all’inizio della dinastia dei Romanov, nel 1613) a quelle che nei manuali scolastici occidentali sono definite “Guerre di spartizione della Polonia” della seconda metà del XVIII, in un fenomeno di oblio dell’ordine temporale e tendenza a ignorare la dimensione cronologica. Però è inevitabile che il passato prossimo delle rivoluzioni di inizio Novecento e dell’URSS abbiano un peso specifico maggiore per un potere politico che ha dovuto lottare ferocemente per riaffermarsi e consolidarsi dopo la fine del regime precedente e quella che per Putin fu, di fatto, una “guerra civile” combattuta nella Russia degli anni Novanta.

Il presidente russo ha perseguito fin dall’inizio un doppio obiettivo, cui corrispondono anche fasi diverse di uso pubblico della Storia e produzione storiografica: da un lato, riconsolidare la legittimità dell’azione dello Stato e il consenso nei confronti delle autorità politiche; dall’altro, compiere un passo in avanti sul piano sovrastrutturale, promuovendo una rivoluzione culturale basata sull’adesione della società civile e dell’opinione pubblica a un’ideologia patriottica fondata su identità nazionale forte e spirito di potenza.

Da questo punto di vista, quindi, è inevitabile la ricostruzione di un quadro coerente e unitario di storia nazionale di lungo periodo, in cui carattere, determinazione, capacità dei capi di Stato e della classe dirigente hanno determinato la grandezza patria, mentre il coraggio e lo spirito di abnegazione del popolo russo (inteso, però, attenzione nella sua declinazione russkij, più ampia di rossijskij, capace di accogliere nella “grande Russia” i popoli fratelli e non solo quelli strettamente russi della regione moscovita) sono state il collante della sicurezza e della capacità di determinare il proprio destino nella storia globale. I Romanov sono stati riabilitati dal governo russo, che per i 400 anni di inizio della loro dinastia (2013) ha organizzato celebrazioni in pompa magna, facendoli coincidere con l’inizio della storia imperiale; l’elemento religioso diventa parte integrante del carattere nazionale russo, in ottica antropologica e politica, sancendo l’alleanza con la Chiesa Ortodossa, come confermato sin dal 2005 quando la Duma accolse la richiesta della Congregazione interreligiosa russa di sostituire la festività del 25 ottobre (calendario gregoriano, 7 novembre da noi), celebrante gli avvenimenti del 1917[6], con il 22 ottobre (4 novembre), già festa nazionale del calendario civile zarista in ricordo della “liberazione” di Mosca nel 1612 dall’occupazione polacco-lituana — e termine appunto del Periodo dei Torbidi.

La Confederazione Polacco-Lituana nel momento della sua massima espansione (1612) rispetto agli attuali confini esistenti

E ancora: sebbene meno presente nei discorsi pubblici, Stalin viene reinterpretato come leader nazionale, prima che comunista, di diritto parte del “pantheon” patrio al pari di Ivan il Terribile (il primo “zar di tutte le Russie” e fondatore della dottrina di “Mosca come terza Roma”), Pietro il Grande (il primo imperatore di Russia) e Alessandro I (il sovrano che guidò la “Prima grande guerra patriottica” contro Napoleone); capace di imporre la modernizzazione del Paese, guidare la guerra di liberazione contro i nazisti e affermare il ruolo dell’Unione Sovietica nell’ordine bipolare determinatosi dopo il 1945.

Il Presidente russo Vladimir Putin e il patriarca Kirill depongono dei fiori ai piedi del monumento a Minin e Pozharskij (liberatori di Mosca), in Piazza Rossa a Mosca

E’ interessante notare come viene trattato, nel discorso pubblico, nei manuali scolastici e nella ricerca storiografica contemporanea, il tema del “terrore”, considerato un corollario necessario del processo di industrializzazione e consolidamento istituzionale; al pari di altri momenti ed episodi su cui vige la condanna morale non solo in Occidente, ma che rappresentano elementi divisivi anche nella stessa memoria collettiva russa: il patto Ribentropp-Molotov e l’annessione della Polonia del ’39, descritti il primo come scelta obbligata a seguito della Conferenza di Monaco e la seconda come intervento necessario a tutelare le popolazioni ucraine e bielorusse (considerate parte dei popoli russkij) rimaste nella Polonia formatasi dopo la Pace di Riga (1921). Non ci interessa qui presentare questi punti di vista della vulgata ufficiale e storiografica russa come “mistificazioni”: vogliamo porre l’attenzione sulla risposta russa al giudizio su periodi controversi, senza dimenticare però che l’opportunismo staliniano all’inizio della Seconda guerra mondiale era stato preceduto da quello anglofrancese di fronte all’avanzata dei fascismi e poteva far leva sui nodi irrisolti del primo dopoguerra nell’Est, dove opposti nazionalismi avevano creato le premesse di nuove guerre in nome della purezza etnico-razziale (come nel caso appunto degli accordi di Riga e della vittoria dei democratico-nazionalisti in Polonia).

Caricatura della pace di Riga che raffigura la Polonia (a sinistra) e la Russia intente a spartirsi la Bielorussia, mentre calpestano il territorio ucraino

La rivoluzione storiografica russa sotto Putin è dunque parte integrante del progetto più generale di rinnovamento politico della tradizione autoritaria e di politica di potenza russa.

Lenin e la guerra civile

E Lenin, Trotskij, i bolscevichi? Questi sono i grandi assenti dell’album di famiglia che la classe dirigente putiniana ha costruito negli ultimi vent’anni. O meglio, sono presenti ma sottotraccia e in chiave per lo più negativa. Come per gli altri temi della rivoluzione storiografica e culturale voluta da Putin e Russia Unita, anche in questo caso si notano diverse fasi e ricostruzioni non sempre coerenti tra loro.

Possiamo però partire proprio dal discorso del 22 febbraio sul riconoscimento del Donbass e la illegittimità della Ucraina contemporanea, per affermare la presenza di un giudizio complessivamente negativo sulla rivoluzione d’Ottobre, i suoi esiti e i progetti politici dei suoi principali artefici. A cominciare appunto da Vladimir Ilic Ulianov detto “Lenin”, che negli ultimi anni è tornato spesso nei discorsi pubblici dell’attuale presidente: anzitutto Lenin è colui che ha “tradito” la patria con la pace di Brest-Litovsk del marzo 1918, che segnò l’uscita della Russia dalla guerra — “abbiamo perso contro la parte perdente, un caso unico nella storia”[7], disse Putin in un discorso del 2016. Nel 2014 sempre Putin, in occasione del centenario dell’inizio della Grande Guerra, affermò a proposito della vittoria certa e tradita: “È stata rubata da coloro che hanno voluto la sconfitta della propria patria, del proprio esercito, seminando discordia e aspirando a prendere il potere, tradendo gli interessi nazionali del Paese”[8]. Nello stesso anno, inaugurò una statua in memoria dei caduti proprio nella Crimea appena riannessa e che al tempo stesso rappresentava anche uno degli ultimi territori dove i bianchi resistettero ai rossi, nelle fasi finali della guerra civile del 1918–21.

In seconda battuta, Putin attribuisce a Lenin gli errori derivati dalla costruzione stessa dell’Unione sovietica in chiave multinazionale — perché se è vero che il nazionalismo di Russia Unita concepisce la patria come casa comune tra popoli fratelli, al tempo stesso però afferma la centralizzazione dello Stato e la sua indissolubilità nelle mani del popolo moscovita. Sempre nel 2016, dopo aver condannato la fucilazione della famiglia imperiale e le politiche anti-clericali del primo governo bolscevico, riprese il tema della “bomba a orologeria” posta sotto le basi dello Stato, con la clausola di secessione e il diritto all’autodeterminazione dei popoli inseriti all’interno della Costituzione sovietica del 1924. Tema poi ripreso anche nel discorso del 22 febbraio con l’accusa diretta al leader rivoluzionario di aver creato l’Ucraina secondo gli attuali confini, “cedendo” le regioni russofone di Donetsk e Lugansk al neonato Stato ucraino, poi inglobato nell’URSS, oggetto di una politica migratoria mirata per costruire un distretto minerario dove mettere a lavorare un proletariato fedele a Mosca.

Ciò che viene rimosso dal discorso putiniano è proprio il contesto non solo di rivoluzione sociale, ma anche di rivolte indipendentiste che sconquassarono l’impero zarista sotto l’urto dell’Ottobre: ripreso da posizione di governo durante la guerra civile, il problema però Lenin se lo era già posto nei suoi scritti tra il 1913 e il 1916[9], quindi prima della presa del potere, affermando senza alcun dubbio la necessità che i socialisti e i rivoluzionari appoggiassero senza esitazioni il diritto all’autodecisione dei popoli e delle nazioni; il dibattito sulla questione nazionale, dove rientrava anche quella ucraina su cui ci fu un clamoroso scontro tra Lenin e Rosa Luxemburg, fu uno dei più accesi nell’ultima fase di vita della Seconda Internazionale. Successivamente, nel passaggio dalla teoria alla pratica, egli rimase coerente con questa impostazione, accogliendo le rivoluzioni nazionali contro il centro russo all’interno del programma comunista perché legate alla questione sociale e alla lotta di classe — e infatti, con la riforma agraria attuata nel ’17 e confermata nella Nuova politica economica, riuscì a garantirsi il consenso di quelle masse contadine inizialmente più distanti dal bolscevismo e le cui aspirazioni di emancipazione si incrociavano con istanze nazionaliste anti-russe — e prevedendo un ordinamento federalista per le repubbliche dei soviet.

Ciò di cui quindi Putin ha accusato Lenin e i primi bolscevichi non è errato, nella sua pura fattualità: furono loro a garantire all’Ucraina una esistenza come Stato indipendente,[10] secondo una filosofia politica e di governo lontane dall’ottica revanscista putiniana. La prospettiva del PCUS sarebbe poi stata ribaltata da Stalin, che con i suoi scritti sulla questione nazionale[11] coniugò la dottrina del socialismo in un solo Paese con l’affermazione di una preminenza della lingua e della cultura russa (con una attenzione spesso poco considerata anche verso la religione ortodossa, concepita come instrumentum regnii) negli Stati sovietici periferici — compresa appunto l’Ucraina, dove a una teoria quindi marcatamente rossijskij fecero seguito anche politiche repressive dopo la Seconda guerra mondiale nei confronti della cultura e dei riti della comunità uniate (ovvero, le chiese cattoliche di rito orientale) ucraina.[12]

Ma se la guerra poteva essere vinta, il collasso economico evitato e le spinte centrifughe di un impero multinazionale limitate, allora il risultato di questo ragionamento è che l’origine di tutti i mali, a cui si sarebbe dovuto porre rimedio successivamente, sono proprio la rivoluzione e il conflitto sociale. In questo Putin riprende alcuni elementi propri delle principali correnti storiografiche russe affermatesi dagli anni Novanta in poi: la rivalutazione positiva dell’ultimo zar Nicola II, da parte della scuola liberale,[13] sovrano responsabile della modernizzazione del Paese nonostante la rivoluzione del 1905 e il mantenimento di una gestione equilibrata del potere anche nel periodo di crisi precedente la svolta del 1917; ovviamente, la distinzione netta tra rivoluzione di Febbraio e di Ottobre: la prima modernizzatrice e capace di conciliare grandezza nazionale e democratizzazione, la seconda descritta come un mero passaggio di potere al partito bolscevico, responsabile di aver deviato per sempre la Russia dalla via democratica e di aver compromesso seriamente la sicurezza nazionale. Le istanze del Febbraio sono collegate direttamente al 1991, come corrente sotterranea sempre presente nella società russa riemersa con la dissoluzione dell’URSS. Mentre la scuola patriottica conosce diverse declinazioni,[14] per cui alcuni esponenti condannano gli eccessi dei rivoluzionari e assumono una posizione termidoriana, mentre altri riconoscono il merito della classe dirigente post-leninista (e implicitamente post-troskista, ovvero quella staliniana) di aver condotto il Paese fuori dalla guerra civile e di aver curato lo sviluppo successivo della Russia. Il carattere comune è dato appunto dalla valutazione positiva della stabilità e dell’assenza di conflitti, in nome di una comune matrice nazionale e statuale.[15]

E’ interessante da questo punto di vista ricordare che il Centenario della rivoluzione d’Ottobre è stato volutamente ignorato da Putin e dallo Stato russo, posizione ben riassunta dal commento del segretario presidenziale Dmitry Peskov che nel 2017 rispose così a una domanda di alcuni giornalisti circa il fatto se il governo avesse o meno intenzione di organizzare celebrazioni per l’anniversario: “E in relazione a cosa dovrebbe essere celebrato?”. In Russia al termine “rivoluzione” si preferisce quello di “guerra civile”, sottintendendo il carattere disgregativo e distruttivo delle rotture rivoluzionarie invece del loro carattere modernizzatore e positivo per lo sviluppo sociale. E quando se ne deve parlare, ritorna il tentativo di attuarne una versione riconciliatrice già provata sotto Eltsin: l’allora ministro della Cultura Vladimir Medinskii nel 2013 dichiarò che era indifferente scegliere chi avesse ragione, se i “bianchi” o i “rossi”;[16] coniando poi una interpretazione diffusasi nel tempo, secondo cui la guerra civile derivò dallo scontro tra due idee diverse di modernità e grandezza russa — quella liberal-democratica e quella socialista –, scatenata in particolare da una modalità violenta di transizione dal regime zarista allo Stato sovietico derivante dal “colpo di Stato” bolscevico. Nonostante ciò, depotenziato il carattere rivoluzionario e spoliticizzato completamente il significato dell’Ottobre, Medinskij descrisse i rossi come coloro i quali sarebbero stati gli unici in grado di ricostruire lo Stato e la nazione. Non a caso, parallelamente, Putin ha avviato anche la riabilitazione di una serie di personaggi un tempo tabù nella memoria pubblica, come i generali Mikhail Drozdovsky, Anton Ivanovich Denikin, Sviatoslav V. Denisov e l’ammiraglio Alexander Kolchak: tutti comandanti dell’esercito controrivoluzionario, monarchici fedeli allo zar, conservatori e sostenitori del panslavismo e della santità ortodossa (oltre che noti antisemiti), difensori dell’impero, celebrati in quanto “eroi” della Prima guerra mondiale.[17]

Monumento agli eroi della Prima guerra mondiale (tramite cui è avvenuta la riabilitazione della “memoria della Russia bianca”) nel Parco della Vittoria sulla collina Poklonnaya a Mosca (2014)

Infine, un accenno a una figura più ignorata che attaccata da parte di Putin, forse perché appunto assente dalla coscienza nazionale post-sovietica (perché ben prima eradicata brutalmente da quella sovietica): ci riferiamo a Leon Trotskij, la cui teoria della rivoluzione permanente mal si concilia naturalmente con la funzione termidoriana positiva attribuita a Stalin da parte della storiografica patriottica e da Putin, oltre che con la prospettiva nazionalista implicita nel dottrina del “socialismo in un solo Paese”. Proprio sulla questione dell’Ucraina, di cui era originario, scrisse l’anziano leader rivoluzionario in esilio in un articolo del 1939[18], in cui ripercorreva la lunga storia del dibattito interno al movimento socialista prima e dopo la guerra: riprendendo le tesi di Lenin, che considerava ogni inclinazione a eludere o rimandare il problema di una nazionalità oppressa una manifestazione del grande sciovinismo russo, Trotskij si rifaceva proprio ai principi della Costituzione sovietica per rovesciare il “bonapartismo” staliniano erede dell’imperialismo zarista che negava i diritti degli ucraini alla propria indipendenza. Con una somiglianza impressionante con i nostri tempi, Trotskij affermava che “l’Ucraina occupa ora nel destino dell’Europa la stessa posizione che un tempo era occupata dalla Polonia; con questa differenza — che le relazioni mondiali sono ora infinitamente più tese e i ritmi di sviluppo accelerati. La questione ucraina è destinata nell’immediato futuro a svolgere un ruolo enorme nella vita dell’Europa”.

Trotskij anzi è stato stranamente assunto a personaggio mediatico da utilizzare a livello di massa nel 2017 per parlare della rivoluzione, quando sulla tv di Stato è uscita una serie in 8 puntate ad altissimo budget sulla sua vita. Piena di errori e inesattezze storiche, è stata demolita dalla critica interna ed estera. Per lo storico moscovita Ilya Budraytskis si tratta, della chiave di lettura della rivoluzione che il regime putiniano propone ai russi: «Questa interpretazione si riassume nella criminalizzazione della rivoluzione stessa come fenomeno politico. La rivoluzione si presenta come un risultato della combinazione di odiose ambizioni umane, la brama di potere, l’egoismo, la lussuria), e le macchinazioni di nemici stranieri, che supportano tali ambizioni, e le utilizzano per la distruzione dello Stato russo».[19]

Copertina della serie tv Netflix

Il fantasma della rivoluzione

“Qualcuno ha deciso di scuotere la Russia dall’interno e ha scosso le cose così tanto che lo stato russo è crollato. Un completo tradimento degli interessi nazionali! Anche oggi abbiamo queste persone”. E’ quanto dichiarava Vladimir Putin alla vigilia del Centenario della rivoluzione d’Ottobre, in un raduno di insegnanti e studenti.[20] Per il presidente russo e il suo partito è evidente che il concetto di rivoluzione resta un fantasma da evocare in chiave negativa, pensando inevitabilmente ai bolscevichi come a un esempio di quello che succede a un Paese quando non si reprimono sul nascere fermenti innovatori e aspirazioni di cambiamento. Una analogia applicata al sorgere delle “rivoluzioni colorate” del 2003–2004 e poi ancora di fronte alla crisi del Caucaso nel 2008, ai movimenti interni del 2011–12 e alla rivolta ucraina del 2014.

Fantasma però che Putin sembra condividere con altri attori dello scenario geopolitico, a lui più vicini e avversari. In Cina la lotta politica interna ed esterna del Partito comunista cinese è da ormai 20 anni rivolta anche contro le tendenze politiche che vengono giudicate come fautrici del caos e quelle correnti sotterranee, ma presenti nel Partito e nella società, che vengono identificate (a volte correttamente, altre in maniera strumentale) come neomaoiste o di opposizione di sinistra: nel periodo di Hu Jintao (2002–2012), il governo ha provato a coniugare riforme e stretto controllo sociale, negando la possibilità del conflitto — come avvenuto in occasione della “rivoluzione dei gelsomini” nel febbraio 2011, che si inserisce al culmine di un triennio di arresti superiore a quelli seguiti a piazza Tienanmen nel 1989. Sotto Hu Jintao e il premier Wen Jiabao si è consumata quella lotta contro i neomaoisti giunti, con Bo Xilai, a posizioni apicali nel Partito: proprio dopo l’arresto per corruzione dell’ex leader di Chongqing, Wen fece il suo discorso di commiato scagliandosi contro la sinistra e rievocando il disastro della Rivoluzione culturale di Mao; in conclusione, riprese un tema già caro a Deng Xiaoping: “Dobbiamo essere vigili con la destra, ma più di tutto con la sinistra”.[21] Con la fase definita “neoautoritaria” di Xi Jinping, il recupero del marxismo e della epopea rivoluzionaria, sembra essere servita più ai fini di una maggiore politicizzazione della vita pubblica e fidelizzazione della società civile al governo, senza implicare una apertura al tabù del conflitto sociale. La battaglia sul significato di rivoluzione è in Cina tuttora aperta[22], ma la classe dirigente comunista ha una forte preparazione storica, oltre che in discipline scientifiche e ingegneristiche, e non può quindi dimenticare che per la cultura cinese “il cielo ha un mandato a termine[23] e che il popolo ha posto fine a regimi e dinastie numerose volte tramite la rivolta (contadina soprattutto) nel corso dei secoli — minaccia da cui nemmeno la Repubblica popolare è immune.

Per quanto riguarda l’Europa e l’Occidente, il discorso merita un focus particolare: nel corso degli ultimi 40 anni abbiamo assistito a una graduale de-conflittualizzazione della cultura politica, in particolare nell’Occidente esteso, che però presenta caratteri e meccanismi riconoscibili in più luoghi.[24] Come in Russia, anche qui il piano storiografico ha risentito del nuovo vento culturale. La grande battaglia si è consumata anche sull’interpretazione storica del concetto di rivoluzione, sul suo legame con la modernità e con il diritto dei popoli alla resistenza. Per decenni il confronto tra la storiografica giacobino-marxista e quella liberale-conservatrice si è giocato proprio sul terreno di quale rivoluzione fosse o, meglio, dovesse essere considerata, l’evento-madre della modernità (europea): in ultima istanza, quella gloriosa e pacifica inglese del biennio 1688–89 o quella violenta francese del 1793 giacobino, “incubatrice del totalitarismo”?[25] Verso la metà degli anni Settanta si è infatti assistito al cambio di regime negli ultimi paesi fascisti europei: il Portogallo nel 1974 e la Spagna l’anno successivo, con l’aggiunta della Grecia sempre nel ’74 (sebbene questo rappresenti un caso particolare e il regime militare dei Colonnelli si fosse instaurato con un golpe nell’aprile ’67). Tra il 1983 e il 1990, invece, terminano le dittature militari in America Latina, i cui casi più significativi sono rappresentati dall’Argentina e dal Cile. Nella prima metà degli anni Novanta si dissolve l’impero sovietico e cadono i regimi “comunisti” anche nei Balcani. Mentre, a partire dal decennio Duemila inizia la serie di cosiddette “rivoluzioni pacifiche” o “colorate”, in particolare nell’est Europa dei residuali regimi autoritari e nel centro Asia. Dunque grosso modo tre/quattro fasi, contesti diversi dal punto di vista geografico, culturale e soprattutto temporale, ma accomunati da un inquadramento interpretativo (coevo o successivo) e da un racconto che li ha pretesi come rivolgimenti sostanzialmente pacifici e privi di conflitto. L’Europa visse la sua transizione con la fine della Guerra Fredda: un insieme di insostenibilità economica e delegittimazione politica dei governi portò alla fine dei regimi filo-sovietici dell’Est dove, fatta salva l’eccezione jugoslava e singoli episodi di violenza in Russia e Romania, i simboli diventano appunto la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia e l’abbattimento senza sparare nemmeno un colpo del muro di Berlino.

L’ondata culturale e storiografia neoliberale occidentale dunque ha costruito una connessione tra la scelta delle “rivoluzioni buone” della Storia e la concezione del cambiamento politico contemporaneo avulsa dalla dimensione del conflitto, senza considerare che per qualunque cambio di regime apparentemente pacifico, in qualche luogo e in qualche altro tempo non lontano si è combattuto. Ma una prospettiva unicamente geopolitica, che ammette come possibili solo le guerre tra Stati — possibilmente fuori dall’Europa — esclude a prescindere la dimensione verticale, profonda, dei conflitti, eliminando dalla scena i soggetti sociali, le società civili e le loro complessità, le dinamiche conflittuali. Ciò che avevano invece presente il Lenin di Imperialismo fase suprema del capitalismo e lo stesso Gramsci dei Quaderni — ma sin dai tempi dell’articolo La rivoluzione contro il Capitale[26] -, quando espressero bene la necessità rivoluzionaria di dare sempre priorità alla dimensione “bassa” del conflitto per intuire le crepe degli edifici imperiali da cui sola nasce la possibilità di mondi nuovi in tempi di guerra.

Per riuscire a demistificare la bulimia di analogie e narrazioni storiche tossiche di cui anche si compone il primo conflitto in diretta social sul suolo europeo è fondamentale affrontare questi aspetti per provare ad alzare lo sguardo e inserire la rimozione russa della (propria) storia ai fini di uso pubblico contemporaneo in una cornice più ampia, per meglio comprendere le necessarie prospettive oltre la logica di potenza che abbiamo davanti all’ultima guerra russo-ucraina.

Ricordando che, in qualche modo, alla prospettiva orizzontale e gerarchica della geopolitica resta sempre complementare la dimensione verticale del conflitto sociale che racchiude in sé, in ultima istanza, la possibilità della rivoluzione. Ciò che in qualche modo resta un tabù per il regime putiniano, ma anche per il rinnovato blocco euro-atlantico suo antagonista.

NOTE:

[1] Sulla Bosnia e i Balcani, cfr P. Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma 1996 e A. Marzo Magno (a cura di), La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991–2001, Il Saggiatore, Milano 2001; sul Medio Oriente, cfr. P.J- Luizard, La trappola Daesh. Lo Stato Islamico o la Storia che ritorna, Rosenberg&Sellier, Torino 2016

[2] https://www.micromega.net/neonazisti-ucraina/

[3] http://www.dadarivista.com/Singoli-articoli/N2-Dicembre-2019/03.pdf

[4] Cfr. G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci Editore, Roma 2021; https://theconversation.com/a-historian-corrects-misunderstandings-about-ukrainian-and-russian-history-177697; https://www.independent.co.uk/news/world/europe/historical-roots-russia-ukraine-b2018532.html

[5] https://www.nationalgeographic.com/history/article/russia-and-ukraine-the-tangled-history-that-connects-and-divides-them

[6] Cinque anni dopo la dissoluzione dell’URSS, il presidente Boris Eltsin ripristinò il 7 novembre come festività nazionale, con un carattere però molto differente dal ricordo della rivoluzione d’Ottobre di epoca sovietica: dal 1996 al 2004 venne infatti celebrato quale “Giorno della riconciliazione e della concordia”. Ma nonostante il cambio di nome, la nuova festività venne considerata solo come una riedizione camuffata della precedente festa sovietica e quindi non riscontrò mai particolare adesione di massa.

[7] https://www.theguardian.com/world/2016/jan/25/vladmir-putin-accuses-lenin-of-placing-a-time-bomb-under-russia

[8] https://it.rbth.com/storia/81741-prima-guerra-mondiale-cresce

[9] V.I. Lenin, L’autodecisione delle nazioni, Editori Riuniti, Roma 1976

[10] Certo, non possiamo dimenticare che i bolscevichi furono comunque protagonisti della guerra repressiva contro la Machnovščina , la repubblica anarchica fondata da Nestor Machno inizialmente alleato dei rivoluzionari di Lenin nella lotta contro il regime militare di destra salito al potere a Kiev dopo il trattato di Brest-Litovsk, poi scontratosi con Mosca per il rifiuto di rinunciare al modello di autogoverno realizzato nelle regioni sotto controllo anarchico. Cfr. A. V. Šubin, Nestor Machno: Bandiera Nera sull’Ucraina, Elèuthera editrice, Milano 2012.

[11] I. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale

[12] Ci riferiamo allo scontro tra ortodossi e uniati, originato nel 1946 dal Sinodo di Leopoli quando su ordine di Stalin venne imposto alle comunità cattoliche di rito greco di confluire nella Chiesa ortodossa sottoposta al Patriarcato di Mosca.

[13] Nikita Zagladin e Jurij Petrov

[14] O.V. Volobuev — V.A. Klokov –M.V. Ponomarev — V.A. Rogožkin

[15] Anatolij Torkunov

[16] https://fondazionefeltrinelli.it/il-centenario-della-rivoluzione-dottobre-nella-russia-di-putin/

[17] https://www.tapum.it/news/210-putin-riabilita-la-prima-guerra-mondiale-e-gli-zaristi-tornano-nel-pantheon.html

[18] https://www.leftvoice.org/leon-trotsky-for-a-united-free-and-independent-workers-ukraine/

[19] Y. Colombo, «Trotsky», il rivoluzionario diventa un’icona pop, su il Manifesto, 19/11/2017

[20] https://www.newyorker.com/magazine/2017/10/16/russias-house-of-shadows; https://www.newyorker.com/sections/news/putins-russia-wrestles-with-the-meaning-of-trotsky-and-revolution

[21] S. Pieranni, La nuova Cina, p. 39, Laterza, Roma-Bari 2021

[22] https://www.internazionale.it/notizie/gabriele-battaglia/2018/12/08/cina-studenti-marxisti; https://www.globaltimes.cn/page/202108/1230909.shtml

[23] S. Pieranni, op. cit., p. 176

[24] E. Traverso, Rivoluzione 1789–1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021

[25] Cfr. A. Giannuli, L’abuso pubblico della storia. Come e perché il potere politico falsifica il passato, pp.61–64, Guanda, Roma 2009

[26] Pubblicato su l’Avanti! il 24 novembre 1917 e su Il grido del popolo il 5 gennaio 1918

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