Senza infamia né gloria: a proposito del centenario del PCI

People’s Memory Project
13 min readJan 26, 2021

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Il 21 gennaio si sono celebrati — o meglio: ricordati — i 100 anni dalla nascita del Partito comunista d’Italia. Rispecchiando una serie di posizioni standard, depositate nelle memorie collettive della società e delle comunità politiche, l’anniversario è stato salutato in modi differenti: la damnatio memoriae da parte della destra; la nostalgia e la retorica delle ultime generazioni di iscritti e militanti PCI — o degli eredi diretti: PDS e DS — che in realtà sembravano più celebrare il partito della loro giovinezza, la versione democratica e di massa di Enrico Berlinguer, piuttosto che la “falange d’acciaio” rivoluzionaria rappresentata da personaggi come Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci e il gruppo de L’Ordine Nuovo; sicuramente minoritaria nel Paese ma presente a sinistra, la condanna senza appello dell’intera esperienza storica del PCI portata avanti dagli ex militanti della sinistra rivoluzionaria e dell’Autonomia degli anni Settanta (sebbene alcuni di questi operassero a suo tempo una distinzione tra l’apparato e la base del partito: l’uno nemico, l’altra bacino potenziale del nuovo movimento rivoluzionario), che per esperienza diretta conobbero il lato repressivo e conservatore del compromesso storico voluto proprio da Berlinguer. Vi è infine la memoria anarchica, che fa risalire la propria accusa alla repressione dell’esperienza ucraina di Nestor Ivanovič Machno da parte dell’Armata Rossa nel 1921 e, soprattutto, il tradimento operato dagli stalinisti durante la Guerra civile spagnola.

Eppure, ci sembra, tutte le posizioni mancano il punto di considerare l’interezza della complessa storia del Partito comunista italiano, un animale politico unico nel panorama internazionale. Partiamo proprio dall’inizio: il XVII congresso del Partito socialista al Teatro Goldoni di Livorno, nel gennaio 1921. Se si vanno a guardare le cronache, l’inizio di questa storia sembra tutt’altro che gloriosa: nonostante il fallimento dell’occupazione delle fabbriche a Torino nel settembre 1920, il PSI ha confermato un forte consenso nelle elezioni amministrative di novembre e mantiene una organizzazione capillare, radicata nei cosiddetti “contro-mondi socialisti” della pianura padana; inoltre, le mobilitazioni operaie e contadine dei due anni precedenti avevano sicuramente strappato le migliori condizioni a livello di diritti del lavoro mai registrate da proletariato urbano e rurale fino ad allora (e, per certi versi, anche successive). Tuttavia l’obiettivo della conquista del potere non era stato raggiunto.

Al Goldoni gli odi di corrente e le divisioni sembrano più forti della realtà — così come d’altronde avvenuto negli ultimi due anni di sollevazione e situazione insurrezionale. Il delegato del Comintern, mandato per imporre l’espulsione dei riformisti, viene deriso da tutti i delegati tranne che dalla frazione comunista: “Scomunica maggiore! Viva il Papa! Vivia il Papachieff! Non siamo servi, non vogliamo legati pontifici!”. La polemica prosegue tra grida, risse, insulti e accuse reciproche tra correnti e sotto correnti. C’è un episodio però particolarmente significativo della rottura in corso: Vincenzo Vacirca, sindacalista siciliano della corrente massimalista, accusa i “rivoluzionari del temperino” di agitare gli animi e prestare il fianco alla repressione borghese, con riferimento a Nicola Bombacci, amatissimo leader comunista soprannominato “Cristo degli operai” o “Lenin di Romagna”. Vacirca tira fuori appunto il piccolo coltello da tasca, mentre Umberto Terracini — esponente della frazione comunista — passa una rivoltella a Bombacci: questi la afferra, si sporge verso Vacirca, gli urla contro con voce strozzata e poi ricade sulla sedia incapace di sparare. Il “Cristo degli operai” aveva appunto dichiarato in una intervista pochi giorni prima, a proposito dei suoi proclami rivoluzionari, di “non sapere usare nemmeno un temperino”.

Gli aneddoti rendono conto del momento: il “Biennio rosso” è finito, ma ancora non lo sapevano. I 55.000 della frazione comunista fuoriescono dal PSI per dare vita alla sezione italiana dell’Internazionale quando il ciclo rivoluzionario in tutta Europa, compresa la Russia, si è concluso — e nella maggior parte dei casi con la sconfitta dei rivoluzionari. In Italia è questione di tempo prima che la reazione travolga i socialisti, la cui capillare organizzazione vacillerà di fronte alle violenze fasciste e dello Stato. Il PCd’I nasce nel momento peggiore per un partito rivoluzionario, con quella che lo storico Renzo Martinelli ha definito “sfasatura storico-genetica” che ne segnerà tutta la storia successiva:

Questo partito infatti, viene fondato, nel 1921, come partito rivoluzionario: le sue caratteristiche originarie, teoriche e organizzative, sono cioè finalizzate precisamente allo scontro risolutivo, previsto come imminente. Ma la realtà, già allora, non corrisponde a tale impostazione: il periodo della genesi e della prima organizzazione del partito rivoluzionario è, al contrario, un periodo <<controrivoluzionario>>, il tempo dell’ascesa e dell’affermazione del fascismo. Questo scompenso politico-organizzativo è alla base delle successive vicende del PCI, e si fa sentire, in forme e modi, particolari, anche nelle vicende del secondo dopoguerra. Tutta la storia del partito potrebbe venir letta, da questo punto di vista, come un graduale (e certamente non lineare) adeguamento alla realtà, un processo di progressiva integrazione nelle tendenze di fondo della società italiana: una sorta di riassorbimento dell’istanza rivoluzionaria di fronte ai dati della realtà, con la rinuncia, prima nella prassi, e infine anche sugli altri piani, alla prospettiva di trasformare il mondo, di dare l’<<assalto al cielo>>.

(R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Il Partito nuovo dalla Liberazione al 18 aprile, pp. 381–82, Einaudi, Torino 1995)

Tuttavia, restano ferme l’istanza rivoluzionaria e la ferrea organizzazione di partito che ben presto deve riconvertirsi per sopravvivere nella clandestinità (il PCI fu infatti l’unica forza politica a non lasciare il Paese durante il Ventennio, decidendo di mantenere una fitta rete interna di lotta politica; negli anni Trenta vi si affiancheranno anche i socialisti repubblicani di Giustizia e Libertà). La cultura politica leninista e l’esperienza bolscevica si incontrano con la tradizione del socialismo italiano, affrontando prima lo scontro diretto degli anni Venti contro lo squadrismo e poi la lunga parentesi della lotta condotta nella clandestinità più assoluta: tutto questo non poteva non lasciare impronte profonde nella sua organizzazione. Il contributo dato dal PCI lo testimonia anche l’appartenenza politica dei condannati dal Tribunale speciale fascista fino al 25 luglio 1943: l’86.32% di questi furono comunisti — 6.92% “Antifascisti generici”, 4.4% “Sloveni e croati”, 0,8% “Azionisti” e 0,5% “Anarchici” [Dati citati in M. Ilardi, A. Accornero, Il Partito Comunista Italiano. Struttura e storia dell’organizzazione 1921/1979, p. 234, Feltrinelli, Milano 1982]. Ora, è probabile che soprattutto nella categoria “Antifascisti generici” rientrassero anche anarchici e socialisti, ma è significativa comunque la netta prevalenza dei condannati di origine comunista.

Se osserviamo la composizione sociale ed esperienziale dei quadri del Partito comunista nell’immediato secondo dopoguerra, non possiamo non notare la netta predominanza non solo dell’origine operaio-contadina e proletaria dei funzionari, ma anche la loro appartenenza alla generazione pienamente terzinternazionalista, formatasi tra le due guerre e che più di tutti può vantare una lunga frequentazione della “scuola del carcere e della guerra politica”:

Durante la ventennale lotta antifascista il 47,1% degli attuali segretari di federazione per sfuggire agli arresti dovette momentaneamente espatriare; il 70,7% sono stati condannati dal Tribunale Speciale e scontarono 445 anni tra il carcere e il confino: l’8,9% sono stati arrestati dai nazisti e alcuni di essi anche arrestati e torturati e deportati in Germania. Il 14,6% hanno combattuto nelle file garibaldine in Spagna e il 66% hanno combattuto quali comandanti, commissari, partigiani, responsabili dei triumvirati insurrezionali e dirigenti il lavoro politico militare nel corso della guerra di liberazione del nostro paese.

(Informazioni riassuntive per il Congresso comunista, 1946, p. 13)

Da questa storia deriva quella che a livello storiografico è stata definita la “doppiezza del PCI”, sviluppatasi al momento del passaggio dalla clandestinità alla democrazia repubblicana. Sempre Martinelli, ci ricorda uno dei possibili significati attribuibili:

questa non è da ravvisare sul piano politico, ma nell’intima contraddittorietà di un modo di essere che mette al servizio di una strategia politica democratica uno sviluppo organizzativo di tradizione leninista.

(R. Martinelli, op. cit., p. 108)

Considerazione condivisa anche da Aldo Agosti:

la doppiezza rimproverata al PCI era dunque una realtà: anche se non consisteva tanto in un voluto mascheramento dei propri obiettivi, con l’esibizione di un volto democratico mirante a nascondere la sostanza di una strategia rivoluzionaria, ma era l’effetto della compresenza nel partito — nel momento in cui esso compiva il grande salto dalla vita clandestina alla vita legale — di più generazioni e di più linee politiche, non apertamente in contrasto fra loro ma nemmeno omogenee. […] È vero però, per quanto parchi siano in proposito gli accenni nel periodo 1944–47, che esso [il gruppo dirigente del PCI, nda] restava fermamente convinto che la democrazia socialista, così come si era realizzata nell’URSS, fosse la più compiuta forma di democrazia possibile, superiore quindi a quella che le condizioni obiettive consentivano di tentare di realizzare in Italia.

(A. Agosti, Storia del PCI, pp. 56–57, Editore Laterza 1999)

Un’anima leninista — il cosiddetto “partito interno” — inserita in un’organizzazione di massa con ancora radicato un forte sentimento rivoluzionario. La composizione biografica e sociale si incontra con l’eredità gramsciana che attribuiva grande attenzione e cura al momento culturale tanto quanto a quelli economico (il sindacato) e politico (il partito): questo è l’ambiente organizzativo in cui nasce quella figura unica nel panorama delle sinistre internazionali che fu il cosiddetto “intellettuale-operaio”, che tanta importanza ebbe nel processo di alfabetizzazione politica e radicamento nei ceti subalterni.

Fino all’estromissione di comunisti e socialisti dal governo nel maggio ’47, tuttavia il PCI aveva sostanzialmente accettato la via di transizione senza rotture dal fascismo alla democrazia, che prevedeva il ripristino in breve tempo del controllo statale sul territorio (con la promulgazione, da parte dello stesso Togliatti in qualità di Guardasigilli, dell’amnistia verso i prigionieri fascisti; e la rinuncia, da parte del socialista Romita ministro degli Interni, all’epurazione di elementi compromessi col passato regime nei corpi di polizia e militari); Togliatti e il gruppo dirigente, compresa la sua anima di sinistra rappresentata da Pietro Secchia, volevano a tutti i costi evitare l’ “errore greco”: ovvero, lo scoppio di una guerra civile — come avvenuto appunto in Grecia dopo la guerra — che si sarebbe inevitabilmente conclusa con lo sterminio e l’incarcerazione di intere generazioni di militanti e quadri, assieme alla messa fuori legge del partito. Questo ovviamente non impedì la creazione di fratture interne nel comitato centrale e tra lo stesso esecutivo e la base, rispetto al limite sostenibile del compromesso con le forze moderate dell’arco costituzionale.

Da dopo la sconfitta del 18 aprile 1948 in avanti la storia del PCI è quella di un partito permanentemente a rischio messa fuorilegge, che cerca di costruire la propria legittimità interna in un contesto nazionale con permanenti culture e strutture anti-democratiche, in cui la presenza del principale attore politico-militare della Resistenza è tollerata ma considerata sempre una anomalia da risolvere. L’obiettivo diventava, secondo la formula togliattiana della “lunga marcia dentro le istituzioni” l’occupazione progressiva, da parte dei partiti della classe operaia e dei piccoli produttore (PCI e PSI in primis), appunto della macchina dello Stato. A questo proposito, ha notato l’ex partigiano e storico Claudio Pavone l’equivoco alla base di una concezione dell’apparato statale come strumento in sé neutrale:

il discorso dovrebbe, a questo punto chiamare integralmente in causa quella linea della sinistra che è stata chiamata di <<occupazione delle istituzioni>> o di <<lunga marcia attraverso le istituzioni>>, piuttosto che di rinnovamento di esse. Questo atteggiamento — largamente comune a comunisti e socialisti, fatta eccezione, riguardo a questi ultimi, per uomini quali Morandi e Basso — si basava su una non corretta valutazione della natura tutt’altro che adiafora delle istituzioni stesse. In virtù di un frettoloso svolgimento di presupposti classisti si finiva infatti con l’arrivare a un singolare recupero della tradizionale dottrina della <<indipendenza>> e <<neutralità>> della pubblica amministrazione, ritenuta disponibile a molteplici usi politici, anche antagonisti rispetto a quelli per i quali era stata ab antiquo creata.

(C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, pp. 87–88, Bollati Boringhieri 1995

Questo processo di adattamento reciproco del PCI al sistema e viceversa non ne lascerà indenne, come già in passato, l’identità e la cultura di riferimento. Ma non si tratterà solo di questo: è la stessa composizione sociale di base e quadri dirigenti del partito che muterà progressivamente, affermando la prevalenza del ceto medio e impiegatizio su quello operaio dopo la metà degli anni Settanta. Inevitabilmente, il nuovo gruppo maggioritario sarà anche portatore di istanze differenti. Le due coordinate tracciate — tattica e composizione sociale — si intrecciano con il mutare dello scenario politico generale, che dalla durezza degli anni Cinquanta passerà per il disgelo interno dei Sessanta e la crisi di rigetto rappresentata dalla strategia della tensione nel quinquennio 1969–74. In questi tre periodi, il PCI cambiò progressivamente atteggiamento: infatti, in occasione dei moti del luglio ’60 contro il governo Tambroni — e il Movimento sociale che gli aveva garantito la fiducia con appoggio esterno — , il partito non perse la generazione definita dei “ragazzi con la maglietta a strisce”, riuscendo in qualche modo a egemonizzare la protesta operaia e di piazza — ed era inevitabile, provenendo dall’inverno del decennio precedente, dove in particolare tra i lavoratori sindacato e partito avevano rappresentato una necessaria linea di denuncia delle discriminazioni politiche del periodo. Mentre, quando esplode il caso relativo al Piano Solo del generale De Lorenzo, il PCI si fece promotore della campagna stampa e della richiesta di istituzione di una apposita commissione parlamentare d’inchiesta.

Da piazza Fontana in avanti invece venne adottata la tesi della strategia della tensione come risultato della presenza di “sacche di resistenza antidemocratica” dentro lo Stato e gli apparati di sicurezza (da qui l’immagine dei servizi “deviati”), cui fece da contraltare la “resistenza democratica” delle forze politiche e sindacali dell’arco costituzionale. Con l’obiettivo di non delegittimare una classe dirigente e uno Stato verso cui puntava sempre più a integrarsi, il PCI scelse come strategia politica di contenere la questione stragista e golpista, in parlamento e nel dibattito pubblico, oltre che nelle reazioni ben più energiche della propria base, chiudendo di fatto l’argomento alla fine degli anni Settanta. Corollario quasi obbligato fu la lotta senza quartiere contro l’“altro pericolo”, quello della sinistra rivoluzionaria e autonoma, per cui il PCI appoggiò la legislazione speciale liberticida sull’ordine pubblico e il terrorismo (inteso sempre quale quello di estrema sinistra) inaugurata dalla “legge Reale” il 22 maggio 1975.

E’ il patto dell’oblio che chiude la stagione delle stragi e dei tentati golpe in Italia. A questo proposito, ha giustamente notato Aldo Giannuli:

Per oltre 30 anni il crinale comunismo-anticomunismo era stato la principale linea di frattura del sistema politico. Con il 1973–74, la discriminante anticomunista resterà solo con valore simbolico, ma si registrerà una sostanziale legittimazione del PCI come forza interna al sistema e lo sbocco dei governi di unità nazionale (1976–79) lo sanzionerà. […] Il vero compromesso con la DC fu una sorta di patto del silenzio, per cui si stendeva una coltre sulle compromissioni degli apparati militari e di polizia che, ovviamente, impediva quella radicale bonifica che sarebbe stata necessaria.

(A. Giannuli, La strategia della tensione, pp. 528–29, Ponte alle Grazie, Milano 2018)

Per portare alcuni esempi, Il PCI negò fino al golpe Borghese l’esistenza di una trama eversiva concreta ed estesa proveniente da destra e dall’interno dello Stato, per poi ammetterla nell’interpretazione già ricordata delle “sacche di resistenza antidemocratica” e rifiutando (almeno pubblicamente) dunque sempre il carattere “di Stato” dello stragismo e del golpismo. Da qui il rifiuto di istituire una commissione d’inchiesta sulla strage del 12 dicembre già nel 1970 e poi, nel ’74, l’opposizione alla proposta del Manifesto di aprirne una dopo l’incriminazione dei dirigenti dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, rispetto ai depistaggi su Piazza Fontana.

Il PCI ha costruito dunque una sua narrazione mantenutasi nel tempo, centrata sulla tesi che “la democrazia ha retto”, soprattutto grazie al proprio impegno, accettando al tempo stesso di porre il silenzio sulla questione, legittimando una serie di luoghi comuni, e spostando l’attenzione della propria base sul “vero pericolo” per la democrazia, ovvero la violenza di piazza e la lotta armata di estrema sinistra. Secondo alcuni un ribaltamento netto della storia del movimento operaio e socialista in Italia, che segnava non soltanto opportunismo politico ma anche l’incapacità di comprendere la complessità e l’eterogeneità interna dell’album di famiglia della sinistra italiana, rinunciando alle istanze di riforma radicale dello Stato e della società; secondo altri, il doloroso compromesso necessario per superare le resistenze conservatrici in Italia e avviare la modernizzazione del Paese tramite lo sforzo congiunto dei due principali partiti di massa, quello cattolico e quello comunista.

Un bilancio conclusivo è difficile da realizzare: la morte di Enrico Berlinguer traccia simbolicamente la fine di un’epoca e l’inizio del declino del partito, che in realtà era iniziato con l’esaurimento della sua proposta politica dopo l’archiviazione del compromesso storico. Tuttavia il PCI è geneticamente cambiato, il cosiddetto “partito interno” leninista era già stato parzialmente smantellato dallo stesso Berlinguer, con il cambio di clima della Guerra fredda, l’allontanamento progressivo dall’URSS e il cambio di profilo delle scuole quadri, più orientate alla formazione amministrativa che a quella politico-ideologica; mentre il sottobosco di cultura rivoluzionaria residuale era andato ormai esaurendosi, anche a livello generazionale. In fondo Berlinguer progettava di trasformare il PCI da “partito della classe operaia” a “partito della sinistra italiana”, in una condizione di legittimazione reciproca con lo Stato e il capitale privato italiano (rappresentato in primis dall’accordo con la FIAT sul punto unico di contingenza e la legge sulla concertazione sindacale del 1975–76). Tuttavia, negli anni Ottanta quel compromesso sarebbe stato rotto proprio a cominciare dalla sconfitta operaia alla FIAT di Torino del 1980, che avrebbe inaugurato il periodo neoliberale in Italia e l’isolamento del PCI, rimasto privo di strategie di integrazione a livello governativo.

Lodovico Festa, in conclusione del suo libro ambientato nel 1984 La confusione morale, fa riflettere il suo personaggio — probiviro della Federazione comunista milanese che indaga sulla morte di un tecnico comunale iscritto al PCI — sulla situazione di stallo in cui si trova il partito dopo la morte di Berlinguer e l’ascesa di Bettino Craxi:

I più sbandati in questo quadro mi pare che siamo proprio noi, quando indichiamo nella purezza del partito l’elemento risolutore della crisi. Dimenticandoci che quando i partiti non sono lobby, o sette, quando sono grandi forze nazionali, diffuse comunità di destino che intrecciano sentimenti, valori, interessi e lotta per il potere, la loro base è la realtà, il fattore meno puro di quelli che sono in circolazione nelle società umane. Se la questione è morale invece che politica, scompare il terreno stesso su cui si possa operare concretamente. E alla fine di morale resta solo la confusione.

In epilogo della sua storia, il Partito comunista italiano finì per ricoprire quel ruolo di “garante del teatro” che gli aveva assegnato criticamente proprio un suo militante, lo scrittore Paolo Volponi. La tragedia e la farsa si intrecciavano nell’Italia degli anni Ottanta e quando calò il sipario a inizio decennio successivo lo spettacolo non aveva avuto modo di finire dignitosamente: attori e pubblico se ne erano andati agitando manette e lanciando monetine, ci si cambiò velocemente d’abito più confusi di prima e dimenticando, a sinistra, una storia che non andava né mitizzata né condannata, ma affrontata e capita.

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